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Dopo 70 anni, la nave San Giorgio riaffiorò dal fiume Po
Una vera leggenda, tutti gli abitanti delle rive del grande fiume ne parlavano e raccontavano la storia della potente nave San Giorgio, affondata nel fiume Po durante la seconda guerra mondiale.
La sua sparizione risaliva al 12 febbraio del 1944 ed il singolare ritrovamento lo si deve ad un ricercatore “cacciatore” di reperti della seconda Guerra mondiale.
Negli ultimi giorni di navigazione la San Giorgio era comandata dal sottotenente di vascello Wienbek, aveva un equipaggio di 52 uomini. Entrò in difficoltà per una tempesta e per il mare forte, tanto che credendo di trovare rifugio il comandante si diresse all’interno del Po non conoscendone, evidentemente, le insidie. Non ci volle molto per incappare in una secca, rendendo inutile il motore da 960 cavalli.
La San Giorgio era lunga 54 metri, larga otto con una stazza di 364 tonnellate, prima di affondare cominciò ad inclinarsi su di un lato, lasciando il tempo al suo equipaggio di mettersi in salvo con le scialuppe.
Venne completamente dimenticata nella zona a Punta della Maestra, affiorava nei periodi di secca solamente la punta del cannone posto a prua (a poppa aveva due mitragliere accoppiate da 20 mm). Questo la fece diventare preda di molti pescatori della zona che la depredarono di quanto fosse possibile riutilizzare. Poi con il lento sprofondamento nelle sabbie del fiume sparì completamente.
La San Giorgio venne fabbricata a Trieste nel 1914 dagli austriaci, poi, dopo il primo conflitto mondiale, entrò in forza alla Regia Marina Militare italiana con la sigla F95 ed utilizzata come pattugliatore. Quindi quando i tedeschi ne presero possesso le lasciarono il nome, San Giorgio, santo venerato anche in Germania, riclassificandola come G107.
Della nave si perse ogni traccia a causa dell’allargarsi e svilupparsi del Delta del Po, che in questi decenni ha modificato completamente la sua morfologia, rubando spazio all’Adriatico e per il conseguente innalzarsi delle sabbie, dovuto all’effetto dell’ingresso, con le maree, del mare nel fiume.
Grazie alla memoria storica dei racconti ed alla tecnologia il ricercatore Luciano Chiereghin è riuscito a ritrovare la nave.


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di Luciano Chiereghin
(che si ringrazia per la
gentile concessione):
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di Luciano Chiereghin
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Si vorrebbe che la Marina Militare italiana, attraverso le informazioni raccolte si attivasse per il recupero; purtroppo, il ritorno alla luce dell’imbarcazione risulta improbabile, oltre che complesso, per via dagli alti costi che comporterebbe la missione!
Nave dispersa della spedizione di sir John Franklin ritrovata dopo 170 anni sul fondo del Mar Glaciale Artico, in Canada
Le due navi canadesi H.M.S. Erebus e H.M.S. Terror avviarono la missione nel tentativo di navigare e cartografare il Passaggio a Nord Ovest.
A capo della spedizione c’era Sir John Franklin, ufficiale della Royal Navy, con lui partirono 134 uomini, imbarcati sulle navi HMS Erebus e HMS Terror, velieri dotati di moderni strumenti di navigazione, e riforniti di viveri che dovevano bastare per tre anni: 15 tonnellate di carne conservata, 500 chili di uva passa, e grandi quantità di sottaceti.
Nei primi tre mesi, cinque uomini furono rimandati a casa, dopodichè quello che accadde agli altri è avvolto nel mistero.
Ritrovata dopo 170 anni una delle due nel Mar Glaciale Artico, scomparse entrambe nel nulla nel 1846 assieme ai loro equipaggi.
È stato così risolto uno dei più grandi misteri del Canada…
Alcuni abitanti Inuit locali avevano dichiarato di aver visto affondare la nave… ma nonostante ciò, nessuno sa esattamente cosa accadde alla spedizione.
Una delle due navi è stata ritrovata in gran parte intatta sul fondo vicino all’isola del Re William, nel territorio del Nunavut.
Non vi è alcun dubbio che si tratti della Erebus o della Terror“, commenta James Delgado, storico marittimo e studioso di relitti del National Oceanic: “Si tratti della più grande scoperta della nostra epoca nel campo dell’archeologia marina ” (autore del libro Across the Top of the World: The Quest for the Northwest Passage sulla ricerca del passaggio a Nord Ovest).
Quella spedizione era una delle meglio equipaggiate e con il personale di maggiore esperienza. All’epoca l’idea di trovare una rotta che unisse l’Atlantico al Pacifico attraverso il nord del continente americano era un vero e proprio sacro graal della navigazione. “Non era come andare sulla Luna, ma ci si avvicinava parecchio“.
La spedizione di Franklin salpò dall’Inghilterra nel 1845. Le navi, al loro arrivo nelle gelide acque canadesi, incrociarono alcune baleniere, ma poi non se ne seppe più nulla.
Uno dei più grandi misteri della storia della navigazione.
Sull’isola di Beechey furono trovate alcune tombe di membri dell’equipaggio, e il ritrovamento di ossa umane con segni di tagli di coltello sull’isola di Re William, tra il 1984 e 1990, ha portato a pensare che i sopravvissuti avessero fatto ricorso al cannibalismo a dimostrazione dei disperati tentativi di sopravvivenza da parte degli ultimi marinai rimasti in vita…
Una nota, lasciata da un membro dell’equipaggio, riferiva che Franklin era morto e che le navi erano state abbandonate, senza ulteriori dettagli.
Gli Inuit dichiararono di aver visto una delle navi affondare rapidamente, ma probabilmente le navi erano state fatte a pezzi dal ghiaccio galleggiante.
L’acqua fredda, poi, potrebbe aver contribuito a preservare libri, diari e lettere a bordo della nave.
La nave potrebbe essere una sorta di “capsula del tempo” che getterebbe luce non solo su quanto è accaduto all’equipaggio, ma anche in quell’epoca.
“Se i canadesi decidessero di approfondire le ricerche, credo che la nave potrebbe dar voce a quegli uomini o, se si riuscisse a trovare i loro scritti, sarebbe come sentirli parlare direttamente”.
Tre marinai – John Torrington, John Hartnel e William Braine – furono le prime vittime di questa funesta spedizione, che non lasciò alcun superstite. Furono sepolti nel 1846 dai compagni, i quali andarono tutti incontro a un’orribile morte, tra cannibalismo e follia.
138 anni più tardi, nel 1984, una spedizione guidata dall’antropologo Owen Beattie riuscì a scoprire a migliaia di chilometri dalla civiltà, tra i ghiacci dell’isola artica di Beechley, un piccolissimo cimitero ‘europeo’ con sepolti i resti di tre marinai perfettamente conservati, immuni dalle ingiurie del tempo, tanto da sconcertare gli scopritori.
Già nel 1850, da spedizioni di soccorso americane e britanniche, furono trovate le tombe dei tre marinai sepolti a Beechey Island.
Tutto cominciò nel 1845, quando due navi lasciarono la Gran Bretagna per non tornare mai più…
Probabilmente, come detto, entrambe le navi vennero bloccate dai ghiacci nello Stretto di Vittoria, vicino all’Isola di Re William, nell’artico canadese. Gli equipaggi forse trascorsero due anni sull’isola, i sopravvissuti poi decisero di abbandonare le imbarcazioni tentando di andare verso sud a piedi.
Nel corso del tempo, molte ricerche hanno contribuito a mettere insieme una sorta di mappa, anche temporale, sul possibile svolgimento dei fatti.
Nel 1854, l’esploratore scozzese John Rae trovò alcuni oggetti dell’equipaggio di Franklin tra gli Inuit di Pelly Bay, essi riferirono di aver trovato nella zona molte ossa umane, alcune delle quali spezzate in due, particolare che fece supporre il ricorso al cannibalismo, almeno tra gli ultimi sopravvissuti.
Sicuramente la prima vittima di questa spedizione non avrebbe mai immaginato che il suo nome sarebbe diventato famoso 170 anni dopo! Se il suo corpo non fosse rimasto intatto nel ghiaccio, John Torrington sarebbe semplicemente scomparso dalla storia: lui era un semplice fuochista della HMS Terror, di cui non si conosce praticamente nulla: né chi fosse, dove vivesse, perché partecipò alla spedizione, qualsiasi notizia che lo riguardi fu inghiottita dall’Artico canadese.
Solamente una targa inchiodata sul coperchio della sua bara informa che l’uomo, appena ventenne, morì il 1° gennaio 1846. Poi, un metro e mezzo di permafrost cementò la tomba di Torrington nel terreno, circostanza che consentì di esaminare un corpo perfettamente conservato (🔞 immagine da richiamare solo per un pubblico adulto).
Il marinaio era vestito con abiti leggeri, di cotone e lino, il suo corpo era adagiato su un letto di trucioli di legno, le membra tenute ferme da strisce di stoffa, mentre il viso era coperto da un tessuto sottile. Quando questo leggero sudario fu rimosso, gli scienziati subirono il più forte spavento della loro vita: due gelidi occhi azzurri sbarrati sembravano fissarli in modo inquietante!
L’autopsia ufficiale afferma che il corpo non recasse segni di traumi, né ferite o cicatrici. Il ragazzo, alto 1,65 metri, pesava solo una quarantina di chili, dettaglio che testimonia la malnutrizione di cui certamente soffriva. I campioni dei suoi tessuti e delle ossa rivelano sintomi di avvelenamento da piombo, forse causato dai cibi in latta. I medici non hanno fornito una causa certa della morte, forse dovuta ad una serie di concause: polmonite, fame e avvelenamento da piombo che, probabilmente, intossicò tutto l’equipaggio.
Dopo aver esaminato i corpi dei tre marinai, i ricercatori seppellirono nuovamente le mummie nella spiaggia di Beechey Island, dove resteranno per sempre…
Anche il cinema ha fantasticato su questo mistero…
Il relitto dell’Andrea Doria: storia della più lussuosa nave da crociera del dopoguerra
Quello che resta della Andrea Doria, la più lussuosa nave da crociera del dopoguerra, si trova nei pressi dell’Isola di Nantucket, Massachusetts, USA, dove le strutture del relitto riposano a circa 70 metri di profondità in un area di forti correnti e bassa visibilità. Essendo una nave di linea famosa è ancora un luogo di immersione popolare per molti subacquei ricreativi. L’esplorazione necessita però di una certa esperienza essendo un’immersione molto impegnativa e non priva di pericoli. A parte la profondità, uno dei problemi maggiori è legato alla frequente bassa visibilità, in una area molto trafficata dalle navi che vanno da New York agli altri porti nordorientali negli Stati Uniti e viceversa. Ad oggi, la sua esplorazione ha mietuto undici vittime tra i subacquei che si sono avventurati in quelle fredde e torbide acque. Ciò nonostante è molto richiesta da parte di subacquei di tutto il mondo che vogliono visitare questa grande regina dei mari.
La storia più avvincente…
L’Andrea Doria era un lussuoso transatlantico di notevoli dimensioni; misurava 213,59 metri di lunghezza fuori tutto, 27,40 metri di larghezza massima al galleggiamento ed aveva una stazza lorda di quasi 30000 tonnellate. La sua propulsione era affidata a due impianti separati di turbine a vapore; la nave poteva raggiungere agevolmente una velocità di esercizio di 23 nodi, con una velocità massima di oltre 26 nodi. Non era la nave più veloce del mondo dell’epoca ma sicuramente una delle più confortevoli.
Fu una delle prime ad avere l’aria condizionata in tutti i locali abitati, sia dei passeggeri sia dell’equipaggio. Per l’arredo della nave erano stati chiamati i migliori architetti dell’epoca tra cui Ponti, Zoncada, Pulitzer Finali, Minoletti. A bordo erano inoltre presenti numerose opere d’arte realizzate appositamente per la nave ospitate per la sala di soggiorno di prima classe tra cui L’allegoria d’autunno di Felicita Frai per la sala delle feste di classe cabina, i mosaici di Lucio Fontana, le ceramiche di Fausto Melotti, e gli specchi dipinti di Edina Altara nel bar di prima classe.
La nave divenne ben presto un mito, tanto che Elia Kazan, in Fronte del porto, fa incrociare lo sguardo di Marlon Brando con l’Andrea Doria in approdo a una banchina di New York. L’Andrea Doria possedeva tre piscine una per tutte e tre le sue classi. Ma era anche un mezzo popolare per l’emigrazione italiana del dopoguerra verso gli Stati Uniti.
L’Andrea Doria era stata costruita dopo la guerra, nel 1951, dai cantieri Ansaldo di Genova per la compagnia di navigazione Italia S.p.A. meglio conosciuta come Linea Italiana. Il nome che le fu dato ricordava il grande ammiraglio della Repubblica di Genova del XV secolo. In suo onore una statua dell’ammiraglio era stata posta nella prima classe. Aveva anche una nave sorella era la Cristoforo Colombo. L’Andrea Doria e la Cristoforo Colombo rappresentarono l’orgoglio del dopo guerra nella lenta opera di ricostruzione dell’Italia, ancora ferita dalla seconda guerra mondiale.
Le due navi (l’Andrea Doria e la Cristoforo Colombo) erano considerate tra le più sicure dell’epoca.
Accadde quel giorno…
Il 17 luglio 1956, l’Andrea Doria lasciò il porto di Genova agli ordini del comandante superiore Piero Calamai. Fece tre tappe a Cannes, Napoli e Gibilterra prima di iniziare il suo lungo viaggio verso New York City. Il 26 luglio 1956, l’Andrea Doria entrò in una fitta nebbia sulla costa dell’isola di Nantucket a meno di un giorno di distanza da New York City. Nella direzione opposta viaggiava un mercantile, la Stockholm, che navigava da New York a Gothenburg, in Svezia.
Alle 23:10 entrambe le navi stavano per incrociare un corridoio molto trafficato. L’inchiesta originale stabilì che l’Andrea Doria tentò di evitare la collisione virando a sinistra, invece di accostare a dritta (ossia a destra) poiché era troppo tardi per qualsiasi altra manovra: infatti la Stockholm ordinò la virata a dritta e l’indietro tutta quando era ormai troppo vicino alla nave italiana. Nascoste dalla nebbia, le navi si avvicinarono, guidate solo dalle reciproche visioni e informazioni radar che non furono sufficienti a evitare la tragedia. Non ci fu alcun contatto radio e nonostante l’Andrea Doria continuasse a emettere i fischi obbligatori durante la nebbia, la Stockholm non lo fece; una volta giunte a potersi vedere a occhio nudo fu troppo tardi per praticare contromanovre atte a evitare l’incidente. La Stoccolma non era una nave di lusso, era una nave progettata per un normale servizio passeggeri e merci ma aveva una prua rinforzata in grado di tagliare i banchi di ghiaccio del nord europa come i rompighiaccio.
L’Andrea Doria e la Stockholm entrarono in collisione violentemente con un angolo di quasi 90 gradi; la robusta e rinforzata prua della nave svedese piegò il lato di Andrea Doria aprendo una falla gigantesca e sfondando sotto il ponte di comando per un’altezza di tre ponti, ovvero per oltre 12 metri. Diverse cabine furono distrutte nell’urto uccidendo 51 passeggeri che vista l’ora si erano già ritirati per la notte. Anche tre membri dell’equipaggio della nave svedese restarono uccisi a seguito dell’urto.
Nave Stockholm
Il dritto di prua della nave Stockholm rimase incastrato nell’Andrea Doria ed il serbatoio di carburante di dritta della nave italiana si apri. L’acqua penetrò nel serbatoio del carburante e la nave rimase bloccata con una inclinazione di 20 gradi. Per fortuna le luci di emergenza si accesero ed i passeggeri si affrettarono sul ponte sempre più inclinato per arrivare sul ponte superiore. L’equipaggio li mise in salvo sulle scialuppe di dritta. Tuttavia, a causa della grave inclinazione della nave, ci si rese presto conto che non tutte le imbarcazioni di salvataggio dell’Andrea Doria potevano essere lanciate in mare. Metà dei passeggeri restarono cosi bloccati a bordo. Nel frattempo, la Stockholm, nonostante i suoi danni, iniziò a soccorrere i sopravvissuti. Fortunatamente, un mercantile da carico americano, il Cape Anne, sopraggiunse e contribuì a salvare gli altri naufraghi. Sul luogo dell’incidente arrivò anche una nave passeggeri francese, la Ile De France, raccogliendo altre persone. I sopravvissuti della Andrea Doria ebbero modo di vedere insieme ai passeggeri e all’equipaggio delle altre navi l’Andrea Doria inclinarsi lentamente sul suo lato di dritta ed affondare. Una tragedia. Il numero limitato di vittime e il completo successo delle operazioni di soccorso fu merito del comportamento eroico dell’equipaggio dell’Andrea Doria, e soprattutto del comandante Piero Calamai, e delle rapide e difficili decisioni da lui prese in momenti tanto concitati. Dopo il salvataggio di tutti i passeggeri, il comandante Calamai restò a bordo dell’Andrea Doria rifiutando di mettersi in salvo; fu costretto a farlo dai propri ufficiali che tornarono indietro per portarlo via dopo l’ultimo passeggero. Alla fine, ben più di 1.000 persone furono portate in salvo a New York.
Le operazioni di soccorso da parte di tutti i mezzi navali a disposizione fecero del disastro dell’Andrea Doria la più grande operazione della storia marittima dell’epoca. Nel 1956 avvenne il processo con diversi mesi di indagini. Importanti avvocati ed esperti di diritto marittimo rappresentarono le due compagnie coinvolte. Gli ufficiali di entrambe le navi vennero fatti deporre, finché il processo si concluse con una conciliazione extragiudiziale e le indagini finirono. Si vociferò che la colpa fosse stata della nave svedese la cui compagnia aveva però interessi in cantieri italiani. Di fatto la collisione comportò diversi cambiamenti nel mondo marittimo per evitare che incidenti simili potessero ripetersi: le compagnie armatrici furono obbligate a migliorare l’addestramento degli uomini all’uso del radar. Va precisato che nell’inchiesta emerse che l’Andrea Doria era dotata di due radar molto avanzati per l’epoca che mostravano direttamente le posizioni dei bersagli, mentre sulla Stockholm il radar non aveva il regolatore della portata illuminato. La Stockholm fu riparata e continuò la sua vita di nave passeggeri fino a pochi anni fa. Ironicamente negli anni novanta la nave svedese cambiò nome in Italia Prima.
Video del relitto (video 🎥) dell’Andrea Doria adagiato sul fondale fu realizzato da Peter Gimbel, il filmato mostra le condizioni della nave dopo tanti anni.
Peter Gimbel condusse un gran numero di operazioni di recupero, inclusa una nel 1981 destinata a recuperare la cassaforte della prima classe che pero risultò contenere solo alcuni certificati d’argento americani e banconote italiane dell’epoca.
La campana della nave fu presa alla fine degli anni ottanta, mentre la statua dell’Ammiraglio Doria fu recuperata dal salone di prima classe da un gruppo di subacquei capitanati da George Merchant. Gli esemplari delle porcellane dell’Andrea Doria sono stati considerati a lungo pezzi pregiatissimi, ma oggi, dopo le numerose razzie, rimangono pochi oggetti di valore a bordo.
Il più famoso transatlantico affondato nel 1912:
il Titanic
Il 1 settembre del 1985, l’esploratore oceanico Robert Ballard si trovò di fronte alla scoperta più importante della sua vita: il relitto del Titanic, adagiato sul fondo dell’Atlantico a 3.800 metri di profondità.
Il RMSTitanic, transatlantico britannico della classe Olympic, ebbe il suo viaggio inaugurale, previsto di otto giorni, dopo la sua ultimazione, il 31 marzo 1912;

la nave partì da Belfast il 2 aprile per giungere a Southampton due giorni dopo. La nave salpò per il suo primo (e unico) viaggio il 10 aprile 1912 da Southampton (Regno Unito) alle 12:00 verso New York, agli ordini del comandante Edward John Smith, al suo ultimo comando dopo una carriera durata oltre 40 anni. La collisione con un iceberg avvenne nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 e precisamente alle 23:40 (ora della nave) di domenica 14 aprile. L’impatto con l’iceberg provocò l’apertura di alcune falle sotto la linea di galleggiamento allagando i primi 5 compartimenti stagni del transatlantico, che 2 ore e 40 minuti più tardi si inabissò ( il drammatico affondamento risale alle ore 2.20 del 15 aprile), spezzandosi in due tronconi.
Nel naufragio persero la vita tra 1 490 e 1 523 passeggeri imbarcati compresi i 900 uomini dell’equipaggio; solo 706 persone riuscirono a salvarsi (alcune delle quali morirono subito dopo essere portate a bordo del Carpathia), 6 delle quali salvate fra la gente finita in acqua. L’evento suscitò un’enorme impressione sull’opinione pubblica e portò alla convocazione della prima conferenza sulla sicurezza della vita umana in mare.
Secondo di un trio di transatlantici, il Titanic, assieme ai suoi due gemelli Olympic e Britannic, era stato progettato per offrire un collegamento settimanale di linea con l’America e garantire il dominio delle rotte oceaniche alla White Star Line. Costruito presso i cantieri Harland and Wolff di Belfast, il Titanic rappresentava la massima espressione della tecnologia navale del tempo ed era il più grande e lussuoso transatlantico del mondo.
Il progetto era ambiziosissimo ed era nato da un accordo del 1907 tra Bruce Ismay, presidente della compagnia “White Star Lines” e Lord Pirrie, proprietario dei cantieri navali Harland & Wolff di Belfast: lo scafo aveva una lunghezza di 268,83 metri, una larghezza di 28 metri e un’altezza di 53,3 metri con un pescaggio di 18 metri. Il Titanic (come le gemelle) doveva essere una nave lussuosissima, con ogni comodità all’interno e ogni sfarzo possibile.
Il Titanic rappresentava un’innovazione anche nello sfarzo con il quale erano decorate le sale e le cabine. Le sale adibite ai passeggeri di prima classe erano disposte dal ponte aperto al ponte E.


Il corrimano del pianerottolo del ponte A era decorato da una grande lampada bronzea raffigurante un cherubino. Sul pianerottolo superiore era incassato un orologio fra due bronzi femminili.
Proprio per questo la scoperta di uno dei relitti più famosi del mondo ha dato il via ad anni di ricerche, operazioni di recupero dei manufatti presenti sulla nave e a un’impennata del turismo locale, il tutto insieme alla preoccupazione crescente di capire come preservare i resti del transatlantico.
In una sua celebre dichiarazione sia il capitano che il costruttore che la proprietà avevano affermato di non riuscire a immaginare alcun tipo d’infortunio che potesse accadere a questi nuovi transatlantici, poiché la tecnica di costruzione era andata ben oltre gli incidenti che si potessero allora immaginare.

Il capitano volle al suo fianco un comandante in seconda più esperto di quello che gli era stato assegnato e all’ultimo momento chiese alla Compagnia di trasferire Henry Tingle Wilde al Titanic almeno per il viaggio inaugurale. Wilde, che prima si trovava sull’Olympic, subentrò così a William Murdoch, il quale retrocesse al rango di 1º ufficiale; il 1º ufficiale Charles Lightoller diventò il 2° mentre il 2°, di nome Blair, fu trasferito (andandosene, egli portò via i binocoli, che erano suoi personali, senza sapere che sulla nave non ce n’erano altri poiché erano stati dimenticati…). Sembra che Wilde non fosse entusiasta dell’improvviso cambiamento e prima dello scalo a Queenstown scrisse alla sorella: «Questa nave continua a non piacermi, mi dà una strana sensazione».

I passeggeri!
Molti passeggeri della seconda classe, precedentemente prenotati su altre navi, vennero dirottati sul Titanic a causa di uno sciopero nelle forniture di carbone. Tra loro viaggiava il ceto medio della popolazione, come impiegati, insegnanti e commercianti. La terza classe era affollata di emigranti provenienti da tutte le parti del mondo ed erano coadiuvati dall’interprete di bordo. In prima classe erano imbarcati alcuni degli uomini più in vista dell’epoca. Tra questi vi era il milionario John Jacob Astor IV, possessore di 150 milioni di dollari e proprietario di alcuni preziosi immobili tra cui il noto Waldorf-Astoria Hotel di New York.
Vi erano inoltre l’industriale Benjamin Guggenheim (il cui fratello era titolare dell’omonima fondazione d’arte), Isidor Straus (proprietario del centro commerciale Macy) e la moglie Ida, Washington Roebling (figlio del costruttore del ponte di Brooklyn), il Consigliere presidenziale statunitense Archibald Butt (che tornava in America dopo una missione diplomatica in Vaticano insieme al compagno, il pittore Francis Davis Millet), Arthur Ryerson (il magnate americano dell’acciaio), George Widener (figlio del magnate dell’industria tranviaria statunitense), il giornalista William Thomas Stead, la contessa di Rothes, lo scrittore Helen Churchill Candee, lo scrittore Jacques Futrelle, i produttori di Broadway Henry e Irene Harris, l’attrice cinematografica Dorothy Gibson, la milionaria Margaret “Molly” Brown, Sir Cosmo Duff-Gordon e sua moglie, la contessa Lady Duff Gordon, George Elkins Widener e la moglie Eleonora, John Borland Thayer e molti altri.
Avevano invece rinunciato al viaggio Lord Pirrie e l’ambasciatore americano a Parigi. In prima classe viaggiava anche l’amministratore delegato della White Star, Joseph Bruce Ismay, che ebbe l’idea di costruire la nave e ne scelse il nome. Era pure presente il principale progettista, Thomas Andrews, che voleva constatare di persona gli eventuali problemi del primo viaggio. Andrews perse la vita nel naufragio, mentre Ismay s’imbarcò sull’ultima lancia disponibile, un battello pieghevole del tipo “Engelhardt”.
A causa del risucchio causato dalla partenza del Titanic, la piccola nave New York, ormeggiata nelle vicinanze, ruppe gli ormeggi e si avvicinò pericolosamente al gigante. Il mancato incidente causò il ritardo di un’ora. Dopo avere attraversato La Manica, il Titanic arrivò in serata a Cherbourg, in Francia, dove sostò con tutte le luci accese, per poi partire qualche ora dopo alla volta di Queenstown (oggi Cobh) in Irlanda, dove scesero 7 passeggeri e si imbarcarono numerosi emigranti irlandesi. Ripartì da Queenstown alle 13:30 dell’11 aprile. L’ultima fotografia del Titanic in navigazione verso New York venne scattata poco prima che doppiasse lo scoglio di Fastnet rock. Già la sera dell’11 aprile, quando il Titanic si trovava già al largo dalle coste irlandesi, arrivò un marconigramma con segnalazioni di iceberg nei pressi di Terranova ma il messaggio non fu mai recapitato al capitano. Tra il 12 e il 13 aprile arrivarono molti altri messaggi ma nessuno di questi fu mai recapitato a Smith.
Le decisioni folli e le manie di grandezza
Il 14 aprile, dopo quattro giorni di navigazione, verso le 13:30, il comandante consegnò a Bruce Ismay un messaggio appena ricevuto dal vapore Baltic, che segnalava la presenza di ghiaccio a 400 km sulla rotta del Titanic: tuttavia, il comandante non diminuì la velocità. Il direttore della White Star non diede eccessivo peso alla cosa e giudicò sufficiente spostare la rotta del transatlantico sulla Outward Southern Track, un corridoio di navigazione concordato per le navi di linea. I due uomini discussero anche della velocità decidendo di portarla al massimo possibile. Nelle ultime 24 ore, infatti, erano state percorse ben 546 miglia e c’era la possibilità di arrivare a New York con un giorno di anticipo. Non fu mai chiarito di chi fu la responsabilità finale della decisione.
Alle 13:45 arrivò un messaggio di “segnalazione iceberg” dal piroscafo Amerika, che inspiegabilmente non giunse al ponte di comando, mentre nel pomeriggio un altro avviso, questa volta dal Mesaba, non fu consegnato. I marconisti erano impegnati nell’invio dei numerosi messaggi privati dei passeggeri, che fin dal giorno prima si erano accumulati a causa di un guasto momentaneo all’apparecchiatura radio (i cavi del trasformatore secondario si erano bruciati).
Verso le 21:00 la temperatura era scesa a un grado sopra zero e l’ufficiale di turno – Lightoller – aveva avvertito il maestro d’ascia che la scorta d’acqua sarebbe probabilmente gelata. Circa a quell’ora, il comandante salì in plancia e discusse con Lightoller delle condizioni eccezionalmente calme del mare. Prima di ritirarsi in cabina, Smith ordinò di chiamarlo se fosse accaduto qualcosa di strano e di diminuire la velocità in caso di foschia. L’abbassamento della temperatura indicava probabilmente che si stavano avvicinando a un banco di iceberg e Lightoller disse alle vedette di prestare attenzione ai ghiacci galleggianti, soprattutto a quelli di ridotte dimensioni detti growlers.
Alle 22:00 il 1º ufficiale Murdoch subentrò a Lightoller, dal quale ricevette gli ordini del comandante. Mezz’ora più tardi Murdoch rispose a un messaggio per mezzo di una lampada Morse proveniente dal piroscafo Rappahannock, che incrociò il Titanic alle 22:30: lo informava di essere appena uscito da una banchisa circondata da iceberg. Lo stesso Murdoch ordinò al lampista di chiudere i boccaporti sul castello di prua, in modo che la luce non ostacolasse la visuale delle vedette, senza però decidere di ridurre la velocità della nave.
Alle 23:00 un importantissimo marconigramma giunse infine dal mercantile Californian, che sostava bloccato nella banchisa a poche decine di miglia a nord-ovest dal Titanic: nel messaggio veniva segnalata la presenza di un enorme campo di iceberg proprio sulla rotta del transatlantico, ma anche questo messaggio non venne recapitato in plancia. Anzi, il marconista Phillips rimproverò l’operatore del Californian per aver interrotto il suo lavoro con la stazione telegrafica di Capo Race, a Terranova. In generale, il risultato fu un atteggiamento di leggerezza e di eccessiva sicurezza che si impadronì di tutto l’equipaggio.

Alle 23:40 (ora locale della nave, UTC-3), le vedette Frederick Fleet e Reginald Lee videro un iceberg di fronte alla nave.
L’avvistamento avvenne “a occhio nudo” a causa della mancanza dei binocoli, e quindi in ritardo: si disse che la portata visiva della vedetta fosse di almeno un miglio in distanza, quando recenti simulazioni computerizzate, tenendo conto che quella notte non era presente il chiarore della luna e il mare era “di calma piatta”, attestano che la portata visiva non poteva superare i 450–550 m in distanza, troppo pochi per evitare la collisione alla velocità di 21 nodi a cui filava il bastimento. Per evitare l’urto fatale, la velocità della nave non avrebbe dovuto superare i 9 nodi, il che avrebbe ritardato di tre giorni l’arrivo a New York: la zona in cui avvenne il disastro è nota per essere un’area interessata dagli iceberg durante la primavera e dagli uragani in estate/autunno ed è considerato un fatto eccezionale la contemporanea assenza di luna e di calma piatta del mare, ragion per cui, con la sola illuminazione stellare e senza il frangersi delle onde sulle pareti dell’iceberg, l’iceberg stesso non poteva che esser avvistato a meno di 500 metri dalla prua della nave.
La mancanza dei binocoli, come detto – si appurò al processo – era imputabile al rimpasto dell’equipaggio voluto dal comandante, in quanto il 2º ufficiale Blair (sostituito da Lightoller) prima del trasferimento diede istruzione di togliere dalla coffa i binocoli che lui stesso aveva portato.
Dopo l’avvistamento, Fleet suonò tre volte la campana e telefonò alla plancia di comando dicendo «Iceberg dritto a prua! Iceberg dritto a prua!». Il comandante Edward John Smith era sceso nella sua cabina da mezz’ora e al comando della nave era in quel momento il primo ufficiale, Murdoch, che comandò di virare immediatamente a sinistra, ordinando anche di mettere le macchine “indietro tutta”, ma la nave viaggiava alla velocità di circa 22,5 nodi (velocità calcolata subito dopo dal 4º ufficiale Boxhall) e non riuscì a rallentare nel tempo necessario a evitare l’impatto.
La collisione non fu avvertita in maniera significativa dai passeggeri delle classi prima e seconda in virtù del fatto che le loro cabine erano posizionate al di sopra della linea di galleggiamento e solo chi si trovava sul ponte si accorse della presenza dell’iceberg, pur senza rendersi conto della gravità dell’evento, in quanto piovvero frammenti di ghiaccio distaccatisi dalla massa dell’iceberg in seguito all’avvenuto impatto.
Dalle testimonianze dei superstiti, l’impatto non fu avvertito in prima classe, se non per un tintinnio dei lampadari di cristallo e per alcuni oggetti che caddero dai comodini, mentre venne descritto dai passeggeri di seconda classe come “una vibrazione ovattata, strana e breve”, come “un botto sordo” dai passeggeri di terza classe, come un rumore “assordante di ferraglia” dai fuochisti, i primi che si resero conto dello sventramento della murata.
Il Titanic è stato ritrovato a circa 612 chilometri a Sud-est di Terranova, in acque internazionali. In base alle leggi marittime, un relitto che si trovi in queste acque non risponde ad alcuna giurisdizione nazionale. Poiché la compagnia che possedeva il Titanic è andata in bancarotta ormai molto tempo fa, chiunque abbia l’equipaggiamento giusto e l’esperienza per raggiungere la nave può immergersi per visitarla. E fare ritorno sulla terraferma con i reperti trovati al suo interno.
I visitatori sono già riusciti a lasciare le loro tracce: nell’area del relitto ci si imbatte facilmente in rifiuti moderni e secondo alcuni esperti i sommergibili hanno danneggiato il transatlantico, fermandovisi sopra o andandoci a sbattere. Anche i processi naturali stanno inesorabilmente contribuendo a distruggere quel che resta del Titanic. Alcuni particolari molluschi hanno divorato il legno, mentre i microrganismi si sono mangiati i metalli formando i rusticles, formazioni di ruggine dalla forma simile a quella delle stalattiti.
Una buona notizia è che ormai il transatlantico si trova sott’acqua da più di un secolo. Rientra perciò in una categoria nuova, quella di sito storico UNESCO. L’altra è che il Canada rivendicherà l’area sulla quale si trova. Oggi il relitto giace oltre la Zona economica esclusiva del Canada, ma il governo può fare richiesta affinché questa venga estesa. Si tratterebbe di una continuazione della piattaforma continentale: se puoi provare che la piattaforma continentale del tuo Paese supera i 320 chilometri, puoi rivendicare quel territorio. Il Titanic si trova sulla piattaforma continentale. E, alla fine, le operazioni di recupero hanno raggiunto il punto di non ritorno.
La maggior parte dei danni sono da attribuirsi agli esseri umani che la visitano. Lo scafo è molto resistente e la parte di prua è ben incassata nel fondale, il che permette alla struttura del transatlantico di rimanere un tutt’uno.
Quello che si può notare sono invece le parti superiori, più fragili, che stanno collassando su sé stesse. Lo scafo dovrebbe poter resistere a lungo, proprio perché la prua ha sbattuto sul fondale, sprofondandovi per quasi 30 metri.
Negli ultimi 30 anni, vi è stata una sola spedizione, nel 2004 e visti i costi, probabilmente, non ve ne saranno tante… Il Titanic riposerà in pace…
La musica e l’orchestra che suona…
Il Titanic era dotato di 3 560 salvagenti individuali, ma di sole 16 lance (più 4 pieghevoli) per una capacità totale di 1178 posti, insufficienti per i passeggeri e l’equipaggio. Le operazioni di carico si svolsero rispettando l’ordine del comandante, che indicava di far salire “prima le donne e i bambini”. L’equipaggio equivocò questo ordine impedendo agli uomini di salire sulle lance, ma in realtà il comandante intendeva dire che gli uomini sarebbero potuti salire in seguito se fosse rimasto spazio libero. La prima lancia fu calata alle 00:40 dal lato destro con sole 28 persone a bordo; poco dopo ne fu calata una con solo 12 persone, sebbene le loro capacità fossero di 65 passeggeri. Sprecando tre quinti dei posti disponibili, molte delle lance vennero calate in mare mezze vuote.
Da parte loro i passeggeri tendevano a considerare la faccenda uno scherzo: se qualcuno aveva il salvagente veniva preso in giro, mentre altri esibivano blocchetti di ghiaccio come souvenir. L’orchestra si posizionò addirittura nel salone di prima classe e cominciò a suonare musica sincopata; si spostò poi all’ingresso dello scalone sul ponte lance. Per oltre un’ora dopo la collisione quasi nessuno era consapevole della gravissima situazione sia perché gli ufficiali e gli altri membri dell’equipaggio furono estremamente cauti nel diffondere informazioni sia perché i passeggeri furono chiamati nel ponte superiore esterno molto tempo dopo la collisione.

Ritrovato il forziere del vascello “Re d’Italia”, pirofregata della Regia Marina italiana
Una storia affascinante che riguarda un misterioso tesoro sepolto da un secolo e mezzo nelle profondità del mar Adriatico. È il tesoro della “Re d’Italia”, pirofregata della Regia Marina italiana affondata dalla nave ammiraglia austriaca “Ferdinand Max” durante la battaglia di Lissa (Croazia) il 20 luglio del 1866.
Ordinata nel 1861 al cantiere statunitense William H. Webb di New York insieme alla gemella Re di Portogallo (i nomi vennero stabiliti con Regio Decreto del 5 ottobre 1862), la nave faceva parte del programma di potenziamento della flotta italiana avviato da Camillo Benso Conte di Cavour.
Costruita in piena guerra civile americana (tanto da paventarne la requisizione da parte della Marina unionista) sotto il controllo di due delegati italiani, l’ingegner Pucci ed il comandante Delsanto, la nave fu varata nel 1863 ed ultimata due anni più tardi. Le prime prove di macchina furono effettuate il 12 novembre 1863 ed i risultati apparvero soddisfacenti, tanto da persuadere gli agenti del Governo italiano ad accettare l’acquisto della nave (che si sarebbe invece potuto rifiutare nel caso la nave non fosse stata giudicata di buona qualità). Il 30 dicembre dello stesso anno la Re d’Italia compì un giro di collaudo nella baia di New York, finendo arenata a causa della nebbia, ma poté essere agevolmente disincagliata senza riportare danni nel giro di un paio di giorni.
Il progetto, sviluppato da quello della pirofregata corazzata francese La Gloire, prevedeva uno scafo in legno rivestito esternamente da piastre corazzate dello spessore di 120 mm, ed un armamento molto potente, composto da 32 cannoni da 160 e 200 mm tutti ad anima rigata, più quattro pezzi ad anima liscia da 72 libbre. A prua, sotto la linea di galleggiamento, l’unità era dotata di uno sperone in ferro. Oltre alla nave, anche l’apparato motore venne progettato e costruito negli Stati Uniti.
In realtà le due unità della classe presentavano gravi deficienze: la principale era costituita dalla corazzatura, che non copriva la totalità dell’opera viva e soprattutto il timone, che era esposto sia al maltempo che ad attacchi nemici (difetti rivelatisi fatali per la Re d’Italia). Gravi problemi affliggevano inoltre l’apparato motore, tanto che in due anni la velocità scese da 12 ad 8 nodi. Ulteriori difetti erano inoltre rappresentati dalla poca manovrabilità e dalle scarse qualità di varie strumentazioni interne. A causa delle avarie alle caldaie e della scarsa qualità del legno con cui lo scafo era stato costruito, la nave trascorse ben 15 mesi, dopo la consegna, ai lavori di manutenzione straordinaria.
Il 19 settembre 1863, mentre ancora era in costruzione, la Re d’Italia venne presa in consegna dall’equipaggio italiano.
L’8 marzo 1864 la pirofregata salpò dagli Stati Uniti diretta in Italia, dove arrivò il 10 aprile, dopo aver attraversato l’Oceano Atlantico, prima nave corazzata a compiere questa traversata senza essere scortata.
Il 15 aprile 1865 la Re d’Italia, appena entrata in servizio, divenne nave di bandiera di comandante in capo di Squadra.
ZAGABRIA. Una storia affascinante, tra realtà e leggenda, che riguarda un misterioso tesoro che giacerebbe da un secolo e mezzo nelle profondità dell’Adriatico. E che ora potrebbe essere stato ritrovato. È il tesoro della “Re d’Italia”, pirofregata della Regia Marina italiana speronata e affondata dalla nave ammiraglia austriaca “Ferdinand Max” durante la battaglia di Lissa il 20 luglio del 1866.
I resti del vascello furono riscoperti nel 2005. La “Re d’Italia” trascinò con sé nel fondo del mare non solo quasi trecento marinai e una trentina di ufficiali – questa la versione accreditata – ma anche un forziere pieno di monete d’oro del valore odierno svariati milioni di euro. A sostenere questa tesi che si perpetua ormai da decenni era stato, nel 2011, anche Tolan Radica, presidente della Società croata per le ricerche, che aveva ricordato che «gli italiani giunsero a Lissa per porla sotto la propria giurisdizione ed è impensabile che nei forzieri della nave non ci fosse una consistente somma di denaro per finanziare la nuova amministrazione».
Oggi, a 13 anni dal rinvenimento del relitto a 115 metri di profondità, quel tesoro potrebbe essere stato ritrovato. Durante una recente immersione tra i resti della fregata, è stato individuato un grande e misterioso forziere. «Cosa ci sia dentro è una domanda cui va data una risposta, bisogna recuperarlo», un «ritrovamento sensazionale». Si sospetta che contenesse 250mila lire italiane del tempo.
La cassa che è rimasta integra perché «sembra essere di metallo», di foggia antica, risalente 19° secolo; la nave, infatti, avrebbe trasportato «denaro per pagare l’esercito».
Il forziere non è stato ancora aperto, in attesa dei permessi delle autorità. E delle probabili e complicate operazioni di recupero.
Si tratta del recupero di una nave che è in condizioni discrete, il relitto ha la prua ancora intatta, perché era corazzata ed è molto spettacolare, mentre tutta la sezione centrale, in legno, è «praticamente distrutta, collassata sul fondo», inclusi «i cannoni». Sarà difficile recuperare la cassa ritrovata? Probabilmente, sì. Ma non impossibile. Si sono fatti recuperi di àncore romane del peso di diverse centinaia di chili a profondità simili e quindi per una cassa così è sicuramente fattibile, ancorché complicato.
Si vuole risolvere un mistero secolare e trovare il tesoro della Re d’Italia…
Storia nei relitti dei fondali della Calabria
Grandi battaglie – con naufragi, vittorie e sconfitte – sono state combattute nelle acque dei due mari, Jonio e Tirreno, che circondano la Calabria.
Nel silenzio degli abissi dormono alcune centinaia di relitti attraverso i quali è possibile ricostruire la storia di numerosi scontri navali combattuti in diverse epoche.
Per anni la Calabria è stata porto di approdo di navi e convogli che hanno caratterizzato la storia navale italiana e mondiale da epoche remote ed in particolare durante la seconda guerra mondiale. Molte navi raggiungevano le coste nord africane ma molte altre concludevano il loro viaggio inabissandosi nei fondali calabresi. Il luogo e la data della scomparsa, l’equipaggio, le modalità dell’affondamento ed il mistero della missione sono tutti quesiti che molto spesso restano senza risposta. Francesco Scavelli da dieci anni, attraverso la consultazione degli archivi nazionali ed internazionali delle Marine Militari, sta ricostruendo la storia, le rotte e le modalità di affondamento dei relitti custoditi nel mare della Calabria, ma non solo… “La nostra – racconta Scavelli – è ricerca che ancora continua. E’ una passione che ci spinge a scendere nei fondali marini e ad individuare le navi che sono ormai nascoste tra spugne e coralli. Dalle nostre ricerche siamo riusciti ad individuare anche imbarcazioni della tarda Magna Grecia“.
A largo di Scilla sono state trovate due navi, una spagnola ed una inglese, che nei primi anni del 1800 si fronteggiarono in una dura e lunga battaglia. “Queste due navi – racconta l’esploratore calabrese – si fronteggiarono in una battaglia che le portò entrambe all’affondamento. Erano navi con 140 cannoni che ora si trovano negli abissi marini”.
Nei fondali calabresi ci sono navi da guerra spagnole, galeoni turchi. Molti sono anche i resti di imbarcazioni risalenti alla seconda guerra mondiale. La striscia d’acqua attorno alla Calabria, infatti, negli anni della seconda guerra mondiale si era trasformata in una rotta bellica. Per la precisione due, una verso i Balcani e l’altra verso l’Africa, entrambe passanti per lo stretto di Messina. In quella parte di mare si combatté la battaglia dei convogli che trasportavano spesso i rifornimenti alle truppe combattenti. Si tratta di navi inglesi, francesi, tedesche, italiane, greche e cipriote. Molte vennero colpite e scivolarono lentamente nei fondali. Al punto che una concentrazione così elevata di relitti bellici pare si trovi solo nelle acque che videro la battaglia di Pearl Harbour.
I relitti della seconda guerra mondiale sono stati anche inseriti in un progetto, promosso l’anno scorso dall’allora assessore regionale al turismo della Calabria, Nicola Adamo, per realizzare delle visite guidate subacquee. “Attraverso i mari della Calabria è passato tutto il mondo. C’é una concentrazione di navi che ci fa capire come le rotte nelle acque calabresi avevano una importanza fondamentale per la navigazione internazionale.
In questi sessant’anni le fiancate delle navi si sono ricoperte di colonie di spugne, coralli di varie specie. I pesci trovano le proprie tane negli anfratti. Di questi relitti solo una quarantina sono stati finora esplorati. Gli altri sono stati individuati, si conosce la loro localizzazione ma sono ancora da esplorare.
Sono una quarantina i relitti nei fondali calabresi che destano maggiore interesse nei ricercatori. Le imbarcazioni sono:
- la Carboniera ‘Zenobia’ (Isola Capo Rizzuto);
- la montonave passeggeri Viminale (Palmi);
- la nave cisterna per acqua ‘Trapez 4’ (Fiumefreddo Bruzio);
- il piroscafo da carico ‘Pasubio’ (Punta Stilo);
- il Rimorchiatore (Capo Rizzuto);
- il piroscafo da carico ‘Marzameni’ (Melito Porto Salvo);
- la nave da carico ‘Lillois’ (Scalea);
- la nave da carico Kingdom (Santa Caterina dello Jonio); il piroscafo ‘Laura C’ (Saline Joniche);
- la nave da carico ‘Gunny’ (Capo Rizzuto);
- la nave da carico ‘Fort Missanabie’ (Roccella Jonica);
- il piroscafo da carico ‘Cosala’ (Badolato Marina);
- il piroscafo ‘Citta’ di Bergamo’ (Capo Spartivento);
- il piroscafo da carico ‘Colomba Lo Faro’ (Melito Porto Salvo);
- la torpediniera ‘Castore’ e la nave da carico ‘Carlo
- Martinolich’ (Capo Spartivento);
- la rinfusiera ‘Capitan Antonio’ (Santa Caterina dello Jonio);
- il cacciatorpediniere ‘Audace’ (Capo Colonna);
- la nave mista ‘Bengala’ (Capo Rizzuto);
- la nave da carico ‘Sparviero’ (Roccella Jonica).
Salve
, sono Luciano Chiereghin, ricercatore per passione, la nave S. Giorgio è stata individuata dal sottoscritto. Vi ringrazio per averla inserita in questi sito e se desiderate una foto ve la posso mandare, basta che mi forniate una e.mail .
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Grazie Luciano, è un vero onore aver ricevuto questo tuo riscontro! L’articolo pubblicato aveva delle foto che per un problema tecnico non erano visibili. Ora lo sono nuovamente e sarà un piacere se le vuoi vedere. Se ci invierai qualche tua foto sarà un grande piacere vederle e pubblicarle! Ecco l’email: giajr@libero.it
Tu aspettiamo e se hai qualche curiosità da raccontare dicci tutto! Grazie ancora, a presto!
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Ecco le foto, della nave, del sito e della strumentazione che ho usato per il ritrovamento. IO SONO QUELLO CON LA MAGLIETTA ROSSA. FATEMI SAPERE SE VI SERVE ALTRO.
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sono arrivate le foto e l’articolo?
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Non abbiamo ricevuto nessuna foto della nave o della missione. Se ce le manda le aggiungiamo volentieri al nostro articolo.
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Abbiamo integrato l’articolo grazie al gentilmente materiale inviatoci dal signor Chiereghin.
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