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La leggenda… [tutta un’altra cosa dalla tragica realtà…]
I loro nomi sono bizzarri, ma Osso, Mastrosso e Carcagnosso sono soggetti su cui non scherzare. Secondo una leggenda, infatti, i tre sarebbero i fondatori di mafia, ‘ndrangheta e camorra. Fuggiti da Toledo (Spagna) nel 1412 dopo aver vendicato l’onore della sorella, i tre cavalieri spagnoli giunsero nell’isola siciliana di Favignana. Qui rimasero nascosti nelle grotte sotterranee per ventinove anni, undici mesi e ventinove giorni, riemergendo solo all’alba del trentesimo anno per fondare nel Sud Italia società segrete simili alla “garduna”, cui appartenevano in terra iberica.
Osso, il più pigro, fondò la mafia in Sicilia;
Mastrosso si stabilì in Calabria, dove mise in piedi la ‘ndrangheta;
Carcagnosso viaggiò fino a Napoli, dove seminò le basi della camorra.
Nella garduna, così come nelle sue filiazioni, vigerebbe un codice d’onore e complessi riti di iniziazione e punizione. Come si è scoperto durante le indagini per la strage di Duisburg del 2007, chi si affilia alla ‘ndrangheta giura ancora oggi fedeltà in nome dei tre cavalieri di Toledo, bruciando un santino di san Michele Arcangelo e spillando tre gocce del proprio sangue. Questa origine è tramandata nell’organizzazione criminale con canzoni e musiche.

ITALIA 🇮🇹
SICILIA: Cosa Nostra, Stidda. Recentemente clan singoli.
CALABRIA: ‘ndrangheta.
PUGLIA: Sacra Corona Unita, Società Foggiana, Clan Baresi.
CAMPANIA: Camorra, Casalesi.
ABRUZZO: Mafia Rom.
BASILICATA: Basilischi (scomparsa).
LAZIO: Clan Rom, Ex banda magliana, mazzetta capitale.
VENETO: Mala del Brenta (scomparsa e poi riapparsa).
ESTERO 🗺
CINESE: Triadi, Gang, Nuova mafia economica.
ALBANIA: Mafia albanese.
SERBIA: Mafia serba.
EX URSS: Mafia russa, mafia ucraina, mafia georgiana, mafia moldava.
ROMANIA: Mafia rumena, mafia rom.
NIGERIA: Black axe, eye, altri gruppi criminali organizzati.
SENEGAL: Gruppi organizzati.
BULGARIA: Mafia bulgara.
EL SALVADOR: Gang.
PERU/ECUADOR: Gang.
EGITTO: Gruppi organizzati soprattutto nei mercati.
ERITREA: Gruppi organizzati nel traffico esseri umani.
INDIA: Gruppi organizzati

Le mafie sono oggettivamente radicate dappertutto, hanno radici lunghe e profonde (ancorché collegato a queste radici vi sia un albero morto, che non produce né fiori e nemmeno frutti); le mafie si fondano sulla cooptazione (assunzione di un membro in un corpo od organo collegiale, mediante designazione da parte dei membri già in carica), l’organizzazione, la violenza, la paura, la povertà d’animo/ignoranza, l’avidità, l’omertà…
e, per contro, si combattono attraverso la parola, la cultura, la legalità e L’ESERCITO!
Non sono controsensi, bensì misure di intervento complementari; non potrà mai capitare che il porgere l’altra guancia ed il mero verbo possano da soli fermare le epidemie! SPECIALMENTE, se radicate ed immuni a molteplici cure.
Un tempo vi era la peste, quella vera, che colpiva la salute delle persone e dell’intero tessuto sociale; quella peste che il Manzoni chiamava “provvidenza“: un calmiere sociale che contribuiva alla ricostituzione del benessere non appena fosse passata la fase epidemica… La peste in quell’ottica era foriera di posti di lavoro, di case e di terreni da coltivare… una peste dalla quale poteva scaturire un piccolo boom economico!
LA MAFIA –> LA PESTE
Secondo la terrificante logica di taluni (terrificante e assurda), le mafie non sono diverse dalle pesti, la mafia porterebbe lavoro, creerebbe benessere, protezione ed opportunità… La mafia, in sintesi, in certe zone, è vista come il vero ammortizzatore sociale nei periodi ciechi ed asfittici…
Una visione che palesa un’evidente sconfitta delle Istituzioni e contro la quale si DEVE porre un immediato rimedio.
Sempre nel proseguire con il calzante parallelismo (mafia–>peste): nel medioevo vi erano le soluzioni estreme che venivano adottate per debellare le pestilenze: il fuoco, quello purificatore che, in quell’epoca poteva veramente fare la differenza nello sradicamento del germe del male.

Oggi le mafie non si possono combattere con il fuoco (quello vero) ma si annientano grazie alle persone, purificandone le menti attraverso la luce della ragione e della cultura (il fuoco della passione, quella che genera sensibilità civile e sociale)… al contempo, le mafie si combattono con il fattivo supporto dell’esercito, inteso come vero catalizzatore di una reazione chimica che, senza un valido acceleratore, impiegherebbe decenni nel realizzarsi e costerebbe migliaia di vite umane e miliardi di euro!

Trasfondere Legalità è una impresa difficilissima e lenta; un’operazione che deve guardare al futuro e che deve utilizzare tutti i mezzi possibili, i migliori però!
L’Esercito Italiano non deve essere visto come strumento di guerra, bensì di presidio sul e del territorio, di vivo e forte segnale della presenza di uno Stato che ha ben compreso la gravità di una situazione esistente in determinate realtà locali. L’esercito come attivo segnale si sicurezza, protezione, deterrenza e ripristino dell’Ordine Pubblico attraverso il risanamento del tessuto sociale.
La mafia, quando c’è, è presente ovunque:
(mafia–>cancro)
- nelle piccole relazioni
- fino alle grandi opere, nei progetti e nelle entità di ogni ordine, specie e grado.
Non è un caso che si parli quotidianamente di “criminalità organizzata“; non è per nulla banale e scontato quando si afferma che si tratta di un business e che, in quanto tale, è sapientemente strutturato; così come lo sono le grandi multinazionali di successo: strutture gerarchiche, strumenti operativi e funzionali all’avanguardia, legami e conoscenze, regole e regolamenti interni che sfociano in articolati ordini di servizio mafiosi.
L’evoluzione della mafia passa da una rete relazionale complessa e capillare nella quale ogni attore riveste un ruolo calibrato in ragione delle proprie capacità, delle parentele, del livello culturale e della posizione sociale.
Combattere sul mercato una qualsivoglia impresa di successo, che opera legalmente, è già di per sé un’operazione complicata… lo si deve fare nel rispetto delle leggi del libero mercato e della libera e leale concorrenza.
Combattere un’impresa criminale-mondiale come la mafia, che opera con regole illecite ed utilizzando tutti gli strumenti che si possono immaginare (e pure che NON si possono nemmeno immaginare) per una mente comune, costituisce un obiettivo incredibile!
Parole d’ordine:
Come Benito Mussolini affrontò e risolse il problema mafioso.
[di Filippo Giannini]
Ci fu chi, nel lontano 1924 fece tanto: ecco come Benito Mussolini affrontò e risolse il problema mafioso.
Mussolini approdò in Sicilia, a Palermo il 6 maggio 1924. Era in programma una visita ufficiale di quindici giorni.
Da continentale, aveva una visione vaga della mafia, ma ben presto la sua conoscenza su quel fenomeno si sarebbe approfondita.
Acompagnato in auto, a Piana degli Albanesi, dal sindaco di quella cittadina, Francesco Cuccia, detto Don Ciccio, che ostentava sul petto la Croce di Cavaliere del Regno, pur essendo stato chiamato in giudizio per omicidio in otto processi, tutti risolti per insufficienza di prove, Mussolini avvertì un certo imbarazzo per il comportamento del notabile seduto al suo fianco.
Don Ciccio, osservato che il suo ospite era seguito da alcuni agenti, confidenzialmente diede un colpetto sul braccio di Mussolini e, ammiccando, gli disse: «Perché vi portate dietro gli sbirri? Vossia è con me. Nulla deve temere!».
Mussolini non rispose, ordinò di fermare la macchina e di far ritorno a Palermo.
Il giorno dopo ad Agrigento parlò ai siciliani e fu una dichiarazione di guerra alla mafia: «Voi avete dei bisogni di ordine materiale che conosco: si è parlato di strade, di bonifica, si è detto che bisogna garantire la proprietà e l’incolumità dei cittadini che lavorano. Ebbene vi dichiaro che prenderò tutte le misure necessarie per tutelare i galantuomini dai delitti dei criminali. Non deve essere più oltre tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra».
Mussolini rientrò a Roma il 12 maggio e il giorno dopo convocò i ministri De Bono e Federzoni e il capo della polizia Moncarda e chiese ad essi il nome di un uomo idoneo a battere il fenomeno malavitoso siciliano. Federzoni propose Cesare Mori. Mussolini ordinò che venisse immediatamente convocato e, conferendogli l’incarico, gli raccomandò: «Spero che sarete duro con i mafiosi come lo siete stato con i miei squadristi!».
Il Governo Giolitti aveva già inviato, precedentemente, Cesare Mori in Sicilia per combattere il fenomeno mafioso. Pur avendo dimostrato notevole perizia, Mori non era riuscito a conseguire un apprezzabile risultato, dati i limitati mezzi legislativi conferitigli.
Il successo dell’azione di antimafia dipendeva dalla serietà e dalla reale volontà del Governo fascista di recuperare la Sicilia allo Stato. La risposta la dette lo stesso Mussolini: «II fascismo, che ha liberato l’Italia da tante piaghe cauterizzerà, se necessario, col ferro e col fuoco, la piaga della delinquenza siciliana».
Vennero quindi concessi a Mori, che si avvalse dell’opera dell’ottimo maresciallo Spanò, i pieni poteri e già a fine anno 1925 ottenne i primi successi: oltre 700 arresti di mafiosi accusati di omicidio, abigeato, grassazione, operati con fulminee azioni nelle Madonie, a Misilmeri, a Marineo, a Piazza Armerina. Seguì un’operazione, forse la più spettacolare, nel comune di Gangi, tra Nicosia e Castelnuovo, dove da oltre un trentennio spadroneggiavano le bande degli Andaloro e Ferrarello, bande che vennero interamente catturate.
Marzo e aprile 1926 videro nuovi successi e nuovi arresti a Termini Imerese, a Marsala, a Mazzarino, a Castelvetrano, a Gibellina.
Così di seguito, mese dopo mese, centinaia di arresti liberarono dalla piovra ampie aree della Sicilia.
Il 26 maggio 1927, in apertura del dibattito sul bilancio dell’Interno, Mussolini tenne alla Camera uno dei discorsi più famosi e più interessanti ed anche uno dei più lunghi: il cosiddetto discorso dell’Ascensione, di cui citiamo un passo: «E’ tempo che io vi riveli la mafia. Ma, prima di tutto, io voglio spogliare questa associazione brigantesca da tutta quella specie di fascino, di poesia, che non merita minimamente. Non si parli di nobiltà e di cavalleria della mafia, se non si vuole veramente insultare tutta la Sicilia. Vediamo. Poiché molti di voi non conoscono ancora l’ampiezza del fenomeno, ve lo porto io sopra un tavolo clinico: ed il corpo è già inciso dal mio bisturi».
Così Mussolini scandisce momenti e cifre dell’offensiva scatenata dal fascismo contro il fenomeno mafioso: successi ottenuti non solo in termini di repressione, e di miglioramento dell’ordine pubblico. Ma il successo maggiore fu l’aver ripristinato l’autorità dello Stato.
Ecco i dati: rispetto al 1923, nel 1926 gli omicidi erano passati da 675 a 299, le rapine da 1200 a 298, gli abigeati da 696 a 126, le estorsioni da 238 a 121, i danneggiamenti da 1327 a 815, gli incendi dolosi da 739 a 469, i ricatti da 16 a 2.
Sono successi significativi che avvalorano la capacità operativa del prefetto Mori.
Questi, continuando nella sua operazione, punta su patrimoni sospetti: si aprono inchieste sulle amministrazioni comunali, si indaga sui beni di cui godono famiglie sospette e si pretende che ne venga dimostrata la liceità, pena la confisca.
A tutto ciò faceva seguito la continua attenzione di Mussolini che sollecitava, con lettere e telegrammi, di perseverare nell’azione e l’accelerazione dei processi.
Nel 1929 l’opera del prefetto di ferro si poté considerare conclusa con l’indiscussa vittoria del nuovo Stato sulla mafia.
La storiografia del dopoguerra, per motivi facilmente intuibili, sostiene che Mori fu allontanato perché cominciava a colpire in alto. I fatti dimostrano il contrario e cioè che Mori colpiva dove c’era da colpire, indipendentemente dai nomi, coerentemente alle disposizioni ricevute al momento dell’incarico.
Certamente si cercò di fermare l’azione dello Stato in diversi modi.
Una petizione fu inviata al Duce, firmata da 400 fascisti trapanasi, con la quale si chiedeva di allontanare «l’antipatriottico prefetto di Bologna amico dei bolscevichi». La risposta di Mussolini fu fulminea: l’immediata espulsione dal partito dei firmatari della petizione. Per gli stessi motivi, a febbraio 1927, venne sciolto d’autorità il fascio di Palermo, rinviando a giudizio, addirittura, il segretario, On. Alfredo Cucco, che fu poi processato e assolto.
Un ufficiale della Milizia, accusato di connivenza con la criminalità, fu condannato a dieci anni, tutti scontati.
Nel maggio 1927 venne sciolto anche il fascio di Catania.
La mafia per sopravvivere dovette emigrare oltre Atlantico e si risvegliò in Sicilia soltanto nel 1943 con lo sbarco angloamericano.
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